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L’algoritmo di Facebook che discrimina

  • Categoria dell'articolo:Asia / Mondo
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Nell’era dei social l’algoritmo ha una valenza profonda e radicata nella vita delle persone, spesso anche senza che queste se ne accorgano. Lo sanno bene però le nuove vittime della parte tragica e discriminatoria di questo potente mezzo: i Palestinesi ed i Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata in Myanmar. Numerose accuse sono state mosse negli ultimi tempi contro Zuckemberg e il mondo Meta. Censurando, bloccando messaggi, eliminando testimonianze video, incitando razzismo, sembra che Facebook abbia alimentato l’impatto negativo sui diritti umani dei palestinesi. La Business for Social Responsibility ha così avviato un’indagine che potesse evidenziare la veridicità della accuse. L’algoritmo risulta razzista in modo inconfutabile; la BSR ha però precisato essere principalmente un errore non intenzionale. Resta il fatto che le persone continuano a morire nella realtà per colpa di qualcosa di sì, accidentale (pare), ma per cui non si sta ancora facendo quasi nulla. Amnesty International si sta attualmente impegnando a condannare un altro caso di violenza social con ampia ricaduta nella vita vera. Nel 2017 Meta ha contribuito in modo essenziale alla strage del popolo Rohingya da parte delle forze armate del Myanmar. Perché se si possono censurare, i messaggi possono anche essere lasciati inviolati come è stato fatto con gli incitamenti all’odio e alla guerra Santa contro i mussulmani. Amnesty non ha solo denunciato l’accaduto, ma ha contattato personalmente il colosso multimediale chiedendo un “indennizzo” di un milione di dollari di risarcimento. Questi andrebbero a finanziare le scuole nel campo di Cox’s Bazar, in Bangladesh e che sarebbero lo 0,002 per cento dei profitti di Meta. Un ultimo dato fondamentale è la recente protesta dei lavoratori Google e Amazon contro il Project Nimbus. Il contratto firmato dai due colossi prevede lo stanziamento della somma di 1.2 miliardi di dollari per un nuovo grande centro dati per il governo di Tel Aviv. I dati parlano chiaro e fanno impallidire se si pensa alla normalità e all’inconsapevolezza di come ogni giorno usiamo questi mezzi.

Ricerche

Chiara

Redazione

Michele e Sara

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